25 novembre 2009

0073 [OLTRE IL SENSO DEL LUOGO] Il massimo di diversità nel minimo spazio

di Salvatore D'Agostino

«Che sia nazionalista o cosmopolita, che abbia radici o non ne abbia, un europeo è profondamente influenzato dal rapporto con la sua patria; la problematica nazionale, probabilmente, è più complessa, più dolorosa in Europa che altrove, o quantomeno è sentita in modo differente. A questo si aggiunge un'altra particolarità: accanto alle grandi nazioni ci sono in Europa piccole nazioni, molte delle quali, nel corso degli ultimi due secoli, hanno ottenuto (o ritrovato) l'indipendenza politica. Forse è stata la loro esistenza a farmi capire che la diversità culturale è il grande valore dell'Europa. Nel periodo in cui il mondo russo ha cercato di ridisegnare a propria immagine il mio piccolo paese (ndr ex Cecoslovacchia), ho formulato il mio ideale europeo in questo modo: il massimo di diversità nel minimo spazio; i russi non governano più la mia patria, ma quell'ideale è ancora più in pericolo.
Tutte le nazioni d'Europa vivono lo stesso destino comune, ma ognuna lo vive in modo diverso, in base alle proprie esperienze specifiche. E per questo che la storia di ogni arte europea (pittura, romanzo, musica, ecc.) appare come una corsa a staffetta in cui le varie nazioni si passano il testimone. La polifonia fa il suo esordio in Francia, prosegue la sua evoluzione in Italia, raggiunge un'incredibile complessità nei Paesi Bassi e trova il suo compimento in Germania, nell'opera di Bach; lo sviluppo del romanzo inglese del XVIII secolo è seguito dall’epoca del romanzo francese, poi dal romanzo russo poi dal romanzo scandinavo, ecc. La dinamicità e l’ampio respiro della storia delle arti europee sono inconcepibili al di fuori dell'esistenza delle nazioni, le cui diverse esperienze costituiscono un'inesauribile fonte di ispirazione.
Penso all'Islanda. Nei secoli XIII e XIV vi è nata un'opera letteraria di migliaia di pagine: le saghe. Né i francesi né gli inglesi hanno creato in quel periodo, nelle loro lingue nazionali, un'opera in prosa del genere! Vorrei che si meditasse a fondo su questo il primo grande tesoro della prosa dell'Europa fu creato nella sua nazione più piccola, che ancor oggi conta meno di trecentomila abitanti». [1]


Per scrivere l’epilogo di quest’inchiesta mi è venuto in soccorso un saggio di Milan Kundera ‘Il sipario’ da dove ho tratto la citazione iniziale.

Lo scrittore cecofrancese per avvalorare la sua tesi ‘Il massimo di diversità nel minimo spazio’ introduce il concetto di ‘Die Weltliteratur’ citando una frase di Goethe: «La letteratura nazionale non rappresenta più granché ai giorni nostri, stiamo entrando nell’èra della letteratura mondiale (Die Weltliteratur) e spetta a ciascuno di noi accelerare tale
evoluzione» [2] e osserva come quest’intuizione, ancora oggi, viene contrastata da una certa accademica che s’identifica esclusivamente con il proprio contesto nazionale.
Per Milan Kundera ci sono due tipi di provincialismo, quello delle piccole nazioni e quello delle grandi nazioni.
«Come definire il provincialismo (ndr dei piccoli)? Come l’incapacità (o il rifiuto) di considerare la propria cultura nel grande
contesto. [3]
[…]
E il provincialismo dei grandi? La definizione resta la stessa: l’incapacità (o il rifiuto) di considerare la propria cultura nel grande
contesto». [4]
Due definizioni simili ma profondamente diverse poiché se il provincialismo dei piccoli può apparire intrinsecamente naturale non lo è quello delle grandi nazioni, che come nota, preferiscono auto-compiacersi della propria presunta autorità culturale.
Cita un sondaggio fatto da un giornale francese all’establishment intellettuale, ognuno era chiamato a compilare una lista dei «dieci libri più significativi di tutta la storia francese [...]
Da questa competizione uscì vincitore I miserabili di Victor Hugo. Uno scrittore straniero ne rimarrà sorpreso. Non avendo mai considerato questo libro importante né per sé né per la storia della letteratura, capirà all'istante che la letteratura francese che ama non è quella che viene amata in Francia. All'undicesimo posto, le Memorie di guerra di De Gaulle. Attribuire al libro di un uomo di Stato, di un militare, una simile importanza è una cosa che difficilmente potrebbe accadere fuori della Francia. Ma quel che davvero sconcerta è il fatto che i più grandi capolavori vengano solo dopo! Rabelais figura soltanto al quattordicesimo posto! Rabelais dopo De Gaulle! Leggo a questo proposito il testo di un grande docente universitario francese, il quale dichiara che alla letteratura del suo paese manca un fondatore quale Dante per gli italiani, Shakespeare per gli inglesi, ecc. Dunque, agli occhi dei suoi compatrioti, Rabelais è sprovvisto dell'aura del fondatore! Eppure, agli occhi di tutti i grandi romanzieri del nostro tempo, egli è, accanto a Cervantes, il fondatore di un'arte intera, quella del
romanzo». [5]

Per l'inchiesta 'OLTRE IL SENSO DEL LUOGO' ho contattato 176 blogger a cui ho chiesto:
  • Qual è l’architetto noto che apprezzi e perché?
  • Qual è l’architetto non noto che apprezzi e perché?
Ho ricevuto 70 risposte e sono stati nominati 159 architetti o studi di architettura.

Le scelte più numerose sono state le ‘non scelte’, 10 per i noti e 12 per i non noti. Risposte che appaiono dei moniti nei confronti di un mestiere particolarmente controverso in Italia, molti di loro rilevano lo scontro impari degli architetti con i cementificatori, ovvero gli indiscussi padroni dell’edilizia italiana.
Dei 39 architetti noti menzionati solo 11 sono italiani, tra cui Giancarlo De Carlo, Ettore Sottsass e Bruno Munari (citati ma fuori tema), uno studio spagnolo-italiano e un architetto che si è auto-proclamato noto ma che è decisamente poco noto.
Tra i non noti sono stati citati 62 architetti (molti italiani), in alcune risposte c’è anche qualche stramberia come Le Corbusier, Giuseppe Terragni e Peter Zumthor e soprattutto ciò che si può definire frutto dell’effetto Wired Mario Cucinella[6] che, come si sa, è architetto noto da tempo. Questa scelta tra i ‘non noti’, dovrebbe far riflettere sul perché la comunicazione di una rivista non di settore sia più efficace di quella specialistica.
Una variante interessante sono state le risposte che non si sono limitate alla scelta di un solo nome, ma hanno indicato un gruppo di architetti. Ho chiamato queste risposte multiple ‘miscellanea’, v’invito a leggere le motivazioni poiché sovente sono interessanti.
Infine, va considerata una piccola sezione che, in contrapposizione alle domande poste, ha citato l’architetto che non apprezza o il non preferito, sono pochi, ma sono tutti italiani.

Ciò che emerge da quest’inchiesta è l’autonomia critica dei blogger interpellati. Come si può notare è mancato il plebiscito nei confronti di alcuni architetti. Il più citato tra i noti è stato Peter Zumthor con sei preferenze. Tra i non noti Mario Cucinella (effetto Wired) con tre rimandi.
Ai blogger manca l’architetto di riferimento, sembra essersi persa la tradizione italiana delle scuole/pensiero. Questa ricchezza critica, denota in positivo, una non omologazione culturale.
Inoltre, se consideriamo i voti nel suo complesso, non si rileva una corrente architettonica predominante:
  • Peter Zumthor [6 citazioni] architetto che possiamo definire fine artigiano dello spazio;
  • Renzo Piano [6] espressionista tecnologico o elegante post-moderno ecologico;
  • Alvaro Siza [6] esponente dell’architettura mediterranea;
  • Santiago Calatrava [4] organico misurato;
  • SANAA [4] gli estremisti dell’architettura diagrammatica;
  • Zaha Hadid [4] blob architettura o meglio l’architettura parametrica;
  • R&Sie(n) [4] sperimentalismo non modaiolo.
Contrariamente al paventato provincialismo kunderiano, i blogger italiani osservano l’architettura nel suo contesto mondiale.
Una vitalità che si trova anche nelle citazioni degli architetti non noti.
L’Italia da Sud a Nord nasconde una vivacità che mi auguro, con il tempo, possa emergere.
Attraverso i dialoghi nati grazie ai commenti, quest’architettura italiana latente, è stata chiamata ‘architettura di resistenza’.
Un’architettura, che con estrema fatica, si emancipa dalla cultura edile dominante. Cioè la cultura edilizia, che possiamo definire ‘speculativa’, che ha determinato la qualità e l’estetica negli ultimi decenni.
Per speculativa si deve intendere l’estremo interesse nei confronti del rapporto costi-benefici a discapito della qualità architettonica.

L’inchiesta nasce per stanchezza dell’uso mediatico di alcune parole che definiscono tutto e il suo contrario e registra con piacere l’assenza del concetto d’identità.
«Gli uomini non hanno mai abitato il mondo, - sostiene Umberto Galimberti - ma sempre e solo la descrizione che di volta la religione, la filosofia, la scienza hanno dato del mondo». [7]
Per il filosofo le 'parole' che definiscono i concetti sono nomadi, parafrasandolo, per molti blogger ‘l’architettura è nomade’.
I blogger/architetti sembrano disinteressati alle tesi care all’accademia italiana che tratterà in un imminente convegno il tema ‘Identità dell’architettura italiana’. [8]
«L’identità è un fondo vuoto e la sua ricerca un tentativoinutile». [9]
Molti blogger, non tutti (alcuni reiterano ancestrali scontri ideologici, bla-bla-bla senza costrutto o ricercano l’identità smarrita), studiano e lavorano per la Die Weltliteratur architettonica, niente di mediaticamente importante ma fondamentale per il respiro culturale della nostra provinciale edilizia (da intendere nei due sensi) italiana.
Ciò che emerge da quest’inchiesta è che per i blogger non esistono culture architettoniche dominanti ma una ricca miscellanea di scritture, idee e progetti con cui confrontarsi.
L’architettura italiana/blogger ha un respiro europeo/mondiale, forse in nuce, l’agognata Die Weltliteratur goethiana.

25 novembre 2009


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Note:

[1] Milan Kundera, Il sipario, Adelphi, Milano, 2005, pp. 43-44

[2] op. cit., pp. 47-48

[3] op. cit., p. 49

[4] op. cit., p. 52

[5] op. cit., pp. 52-53
[6] Mario Cucinella, Il mio piano casa. Wired ed. italiana, n.3, maggio 2009, pp. 54-63 (Link)

[7] Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, Milano, 2006, p.9
[8] Identità dell’architettura italiana, Firenze, Aula Magna dell’Università, Piazza San Marco, 2-3 Dicembre 2009. Qui il programma.

[9] Umberto Galimberti, op. cit., p. 83
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Leggi:

19 novembre 2009

0035 [SPECULAZIONE] Sulla fine del design di Umberto Eco

Less is more
Pubblico un breve saggio di Umberto Eco apparso su Lotus, n. 138, giugno 2009, pp. 115-117.
Ricordate il principio essenziale del movimento moderno ‘la forma segue la funzione’? Eco, tra l’architettura apocalittica e quella integrata, da cinico realista, introduce il concetto della forma segue il ‘mi piace’.
I like it, more or less



di Umberto Eco


Sulla fine del design
Per il Festschrift per gli ottant'anni di Vittorio Gregotti.

Se qualcuno ancora insistesse nel chiedere che cosa sia il Postmoderno in architettura, ispirandoci ai padri della teologia negativa potremmo sempre rispondere: 
«Hai presente Gregotti? Ecco, tutto il contrario».
Attraverso i suoi scritti e i suoi progetti, nel corso dei decenni, Gregotti ha delineato con assoluta chiarezza la sua visione di una architettura moderna - anche a costo di apparire inattuale. Non appena ci si allontana da quelle linee di rigore e razionalità che Gregotti ha sempre propugnato, si entra in un modo o nell'altro nel postmoderno, qualsiasi cosa esso sia.
Che cosa esso sia, per Gregotti è abbastanza chiaro, e qualcuno recentemente su internet parlava di alcune sue preoccupazioni "apocalittiche". Non so se il termine sia esagerato ma certo è che nel suo L'architettura nell'epoca dell'incessante (p. 26) Gregotti cita:
«Avvicinandoci al secondo millennio, dobbiamo iniziare a considerare la modernità come l'epoca in cui il mostruoso viene compiuto da criminali umani: imprenditori, tecnici, artisti e consumatori. Questo mostruoso non è inviato dagli antichi dei, né è rappresentato dalle mostruosità classiche: la modernità è l'epoca del mostruoso fabbricato dall'uomo». 
 E commenta:
«Se si giudica questa affermazione di Peter Sloterdijk non lontana dalla verità, si deve ammettere che le riviste di architettura e le mostre internazionali, premi e show televisivi, si sviluppano quasi sempre come campioni significativi della rappresentazione di quel mostruoso».
Nel 1999, in Identità e crisi dell'architettura europea, parlava dell'atopia spaziale (espressione invero ridondante) per cui le nuove tipologie insediative sono indifferenti alle condizioni di localizzazione e tendono ad assimilare la costruzione architettonica al manufatto di consumo. Nel 2002, in Architettura, tecnica, finalitàL'architettura nell'epoca dell'incessante (2006) dove si indicano i seguenti caratteri di una architettura che ha abdicato all'utopia modernista: (1) essa soccombe a una «estetizzazione del quotidiano» comune anche alle arti visive, a una «sovrabbondanza estetica», (2) più che inventare nuovi linguaggi riusa e scompiglia i linguaggi inventati dalla modernità; (3) tende non a realizzare le funzioni primarie dell'abitare ma a un «intrattenimento visivo». Quanto basta per liquidare se non tutto almeno gran parte del postmoderno all'insegna di «congiunzioni perverse».

Per capire quello che Gregotti vuole e quello che paventa mi è stata utile una recente visita a Shanghai, una passeggiata lungo il fiume e per la Nanjin Road e, il mattino dopo, una visita alla città satellite che la Gregotti Associati sta costruendo non lontano da Shanghai, a Pujang (sic). Punjang (sic) è una città giardino per centomila abitanti, attraversata da canali di dimensioni "veneziane", dalle tipologie riconoscibili, centri commerciali, grandi complessi d'appartamenti, villette di livello sociale visibilmente diverso (non dimentichiamo che si doveva rispondere a una committenza selvaggiamente capitalista), molto verde, giochi cromatici sobrii.
Per descrivere invece downtown Shanghai basterà dire che in confronto New York è un villaggio sporco durante un black out, e Las Vegas un Luna Park paesano di modeste dimensioni.
La nuova Shanghai è un tripudio di edifici altissimi che si presentano di notte come pagine di un albo a fumetti e si rinviano riflessi e rifrazioni; è l'annuncio di come sarà la vera città di domani progettata non per abitarvi (si suppone che quei grattacieli siano tutti uffici e non importa nulla dove stia la gente) ma per comunicare se stessa, in un'orgia di estetizzazione globale.
Dico subito che sono meno apocalittico di Gregotti. Se Pujang (sic) fosse messa in centro lungo il fiume, Shanghai diventerebbe un villaggio babilonese senza giardini pensili, e se la città lungo il fiume fosse trasportata a Pujang (sic), o sarebbe un clone senza fiume, o sarebbe la nuova downtown. Voglio dire che mi va bene che il satellite sia moderno e il centro postmoderno - almeno se non sono costretto a viverci.

Naturalmente ci sono obiezioni, ma non di carattere estetico bensì ecologico: quelle pareti di cristallo richiedono una immensa energia per riscaldare o refrigerare gli interni, i costi di costruzione sono realizzati sulla pelle di circa un miliardo di proletari, l'obsolescenza (non solo estetica ma anche dei materiali) sarà rapidissima, e non è inverosimile che entro qualche decennio, magari dopo uno tsunami provocato anche da quell'eccesso d'inquinamento, quel panorama che mi ha affascinato sia buono solo per girarvi un disaster movie. Ma, a parte le riflessioni ecologiche, che differenza c'è tra il piacevole spreco costituito dal centro di Shanghai e il piacevole spreco costituito dalla cattedrale di Chartres?
Per giustificare questa mia domanda apparentemente oltraggiosa (e per calmare gli animi dico subito che sono un ragazzo all'antica e sto sentimentalmente ed esteticamente con Chartres) debbo tornare ad alcune mie vecchie riflessioni sulla semiotica dell'architettura, quando ne La struttura assente (1968) distinguevo, per gli oggetti architettonici e di design, le funzioni prime dalle funzioni seconde. L'esempio che davo era quello della sedia: la sua funzione prima è di fornire supporto a un corpo umano articolato in modo da formare due angoli retti (busto/cosce e cosce/polpaccio) e in tal senso la sua forma comunica la sua funzione. Ma una sedia può voler rappresentare una certa dignità (come i troni o le poltroncine dei ricevimenti ufficiali al Quirinale - su cui si sta scomodissimi ma con postura formalmente corretta) e in questo senso esprime (anche attraverso il suo ornato) la sua funzione seconda, che è appunto etichettale e cerimoniale. In genere un buon equilibrio compositivo sta nella giusta bilancia tra le due funzioni, ma ricordiamo che una cattedrale gotica, se dovesse servire soltanto a riunire fedeli per i riti sacri, manifesterebbe un eccedenza della funzione seconda sulla prima. È esageratamente verticale, inutilmente esile e traforata (se non fosse per la necessità appunto simbolica di dar spazio alla luce che penetra attraverso le vetrate), quando non esibisce sculture che servano a educare i fedeli è troppo ornata (perché le grondaie debbono essere in forma di mostro?) E tuttavia questo eccesso di funzioni seconde è giustificato dall'ideologia che la ispira e che essa incarna in pietra: la cattedrale non è un manufatto abitativo, ma la celebrazione di una comunità che si, riconosce nel Sacro.

Parimenti il postmoderno di Shanghai celebra (lo dice anche Gregotti) l'orgoglio di una comunità che si riconosce nel Mercato.
Ciascuna epoca ha i propri dei, ma non è la teoria dell'architettura che deve dire quali siano quelli giusti, altrimenti si dovrebbe proclamare la scandalosa e idolatrica inutilità delle piramidi.
Pertanto il postmoderno celebra il Mercato attraverso il piacevole, lo straordinario, la novità a tutti i costi e contemporaneamente l'accettabilità di ogni provocazione. La nuova cattedrale - è lo shopping mall. Sono tutte cose che Gregotti dice qua e là. Forse, rispetto a Gregotti, sono un apocalittico cinico, visto che mi trovo bene anche a Shanghai (almeno per una sera e senza aver responsabilità di guru del pensiero architettonico), e ritengo che il fatto che molti di questi manufatti celebrativi dureranno pochissimo dovrebbe essere di conforto ai nuovi atei che non credono al Mercato, mentre la indistruttibilità di Chartres costituiva motivo di sofferenza per gli anticlericali del XIX secolo. Ma c'è un punto dell'argomentazione di Gregotti che, secondo me, richiede un supplemento di apocalisse.

Gregotti afferma a più riprese, e principalmente ne L'architettura nell'epoca dell'incessante, che tutta l'arte, architettura compresa, sembra rientrare oggi nel perimetro del design («nel senso peggiore di questo termine»), come «processo di intermediazione formale nello scambio di immagini delle merci contro merci», dove «il valore di scambio del prodotto si basa sulla seduzione del segno». È evidente che Gregotti usa sia design che estetico in senso deteriore, ma quand'ero piccolo mi si spiegava che il design è una cosa buona, perché in esso la forma segue la funzione, mentre quella pratica che sottometteva l'utente alla seduzione del segno (cambiando dell'oggetto solo la pelle) era lo styling.
Non so se il postmoderno per Gregotti abbia ridotto ogni design a styling o se in qualche senso abbia corrotto l'essenza stessa del design (ricordate: «La forma non segue più la funzione ma il mercato»). Ma se un fenomeno oggi ci colpisce (forse indipendentemente dal postmoderno e forse persino in opposizione al postmoderno) è la fine del design - ovvero del compito che il buon design aveva di manifestare attraverso la forma dell'oggetto la sua funzione.

Non sto parlando degli eccessi più o meno postmoderni come lo spremiagrumi di Starck, dove la funzione prima non solo non viene comunicata (moltissimi faticano a riconoscere l'oggetto) ma viene ridotta (lo spremiagrumi non riesce a trattenere i semi del frutto e li lascia scivolare nel bicchiere). In fondo si tratta di un conversation piece, e si paga per esibirlo in salotto, non per farsi una limonata in cucina. E neppure parlo del museo di Bilbao, dove certamente nulla, in quella simpatica megascultura a cielo aperto, ci dice che dentro ci sia un museo (o addirittura che ci sia un dentro) - ma in fin dei conti il visitatore viene spinto a circumnavigare e a esplorare il manufatto, sino a che ne scopre anche la funzione prima.
Sto parlando d'altro. Vorrei sottolineare che parlare di comunicazione della funzione prima non è la stessa cosa che ricuperare il principio classico per cui Form follows function. Dire che la forma segue la funzione significa dire sia che ne è motivata sia che la facilita, non necessariamente che la comunica. La forma aerodinamica di un razzo spaziale non comunica che l'oggetto possa volare, caso mai lo comunicava meglio l'aereo di Otto Lilienthal. In un ascensore la forma segue certo la funzione, ma l'ascensore non comunica il fatto che entrando in quella scatola si possa salire, mentre la scala ci prescrive i movimenti da fare per ascendervi.
La maggior parte degli oggetti classici che ci paiono esemplarmente comunicativi oltre che funzionali sono tali perché sono dei calchi della mano o di qualche altra parte del corpo. Seguono la logica del calco oggetti come l'impugnatura del cacciavite, il tirapugni, la maniglia, la scarpa, le forbici, l'imbuto e il cornetto acustico, gli occhiali, il piatto, il calice, lo spremilimoni originario, il volante, la sedia o poltrona. Dove c'è calco non c'è mediazione. C'è congruenza e siamo in tal caso al concetto ergonomico di affordance.
Quando la forma, se pure segue la funzione, non la comunica, occorre un'interfaccia. Il calco è sempre stata la forma più biologicamente e fisiologicamente elementare dell'interfaccia, ma non ogni interfaccia è un calco. L'interfaccia diventa importante proprio quando non c'è calco. Certamente anche in una vecchia radio l'indice graduato con manopola non ci comunicava quanto avremmo dovuto dovremmo sapere sul modo in cui una radio funziona, ma in qualche modo ci comunicava ancora la possibilità della esplorazione di uno spazio (la monodimensionalità dell'indice graduato era proporzionale alla multidimensionalità dello spazio hertziano). Ora questa comunicazione viene del tutto perduta in modelli totalmente digitali dove ci si sintonizza mediante tasti. L'interfaccia non ci dice nulla, a meno che non abbiamo letto il manuale.

Perché si è incrinato questo rapporto tra forma e funzione? Per capire meglio questo problema vorrei rapidamente tratteggiare il rapporto tra protesi, strumento e macchina. Una protesi è una estensione della capacità del nostro corpo (e tali sono martello, cucchiaio, bastone e cannocchiale), e in generale suggerisce, per qualche forma di calco o affordance, la funzione dell'organo che sostituisce o potenzia.
Lo strumento (che è manuale) invece fa quello che il corpo non potrebbe mai fare, come accade col coltello, la forbice, o la macchina fotografica. Rispetto alle protesi, produce oggetti nuovi. Tuttavia anche molti strumenti si basano sul principio del calco, persino la camera cinematografica, che ci dice dove appoggiare l'occhio per consentirci di inquadrare quel sostituto di immagine retinale da consegnare all'eternità.
Invece una macchina fa cose nuove, come lo strumento, ma indipendentemente dalla forma e dalla collaborazione dell'organo corporale che sostituisce o perfeziona. Una volta accesa, la macchina fa tutto da sola, e attraverso una serie di mediazioni meccaniche la maggior parte delle quali ci sfugge. Quindi non richiede che la maneggiamo d'istinto secondo il principio del calco, e instaura la stagione dell'interfaccia. Si pensi alla differenza tra il flauto di canna e il pianoforte. Il flauto è protesi, e ci dice per affordance dove dobbiamo porre le labbra per emettere suoni migliori di quelli che produrremmo con la sola bocca; il pianoforte è invece macchina, produce suoni che noi non sapremmo produrre, e ha un'interfaccia elaboratissima che è la tastiera (del tutto non-intuitiva: che le note salgano in altezza da sinistra a destra potrà parere ovvio a noi ma non a un arabo o a un israeliano).

Ora che cosa accade oggi? Gli strumenti e persino le protesi diventano sempre più macchina. Ma la macchina tradizionale, da quelle di Erone a quelle di Jules Verne, aveva aspetti quasi antropomorfi, denti, leve, bracci, bilancieri. L'interfaccia era spesso rappresentazione analogica di alcune di queste funzioni – si pensi al girare delle lancette dell'orologio che ricorda il girare delle sue rotelle interne. La macchina elettronica invece non ha più funzioni antropomorfe. Non solo, ma fa economia di una antica differenza di funzioni facendo funzionare tutto con lo stesso criterio. Le funzioni sono - o paiono - immateriali, e pertanto non sono rappresentabili dall'interfaccia. Per questo un solo tipo di interfaccia standard sta già unificando il televisore, la radio, il computer, il cruscotto dell'automobile, il forno a microonde, la sonda Geografica, il bisturi laser. E già sin d'ora sulla mia automobile posso comandare sintonizzazione radiofonica, ed, assestamento su velocità di crociera, notizie sulla benzina residua o sul suo consumo, temperatura e condizionamento, e ben presto gli stessi movimenti di accelerazione e freno, manovrando la stessa console, interfaccia unificata.
Per questo il design del futuro non avrà più da risolvere il problema della forma che segue la funzione, ne quello della forma che comunica la funzione. L'unica vera funzione la svolgerà il circuito elettronico stampato, la cui forma è bellissima ma astratta - e in ogni caso è impercettibile dal fruitore. Questo oggetto quanto agli effetti, ma non se ne determina il funzionamento, ne manualmente ne intellettualmente (persino il tecnico ha solo istruzioni di montaggio).
Per il resto la pelle dell'oggetto è lasciata alla genialità o all'estetismo del progettista e alle fluttuazioni della moda. Al limite una radio potrebbe assomigliare a un automobile o a un violino, e se assomiglia ancora (ma sempre meno) a una radio è perché è più comodo individuarla immediatamente come tale in soggiorno, ma per quel che riguarda la sua prestazione potrebbe essere simile a un porcellino (e ne esistono) o a una bottiglia di whisky.
La bottiglia del whisky è ancora una vecchia protesi che sostituisce le mani a conca, ma domani il whisky potrebbe essere versato mediante telecomando da ugelli posti alla base del televisore (come accade con le macchine per tè o caffè nelle aziende o nelle stazioni).

Quindi ci si avvia alla completa deresponsabilizzazione del design e alla semplificazione dell'ergonomia (un unico dispositivo dovrà azionare sia Chopin che lo sciacquone). La macchina universale del futuro assomiglierà allo schermo di Windows, e non avrà ragioni per non assomigliarvi. Quando non vi assomiglierà sarà per pure ragioni di prestigio (il versamento manuale dei liquidi rimane d'obbligo nei grandi hotel e nelle sale vip degli aeroporti, così come la Rolls Royce deve assomigliare a un'automobile di cinquant'anni fa). Per il resto la macchina universale dovrà occupare poco spazio, essere gradevole alla vista, facilmente pulibile, il più possibile leggera e trasportabile. Anche il robot del futuro non avrà forma androide ma sarà una sfera, o un cubo, la cui superficie esterna servirà insieme da specchio, telecamera, audiodiffusore, schermo tv e computer.
Rispetto a questa ipersemplificazione, là dove ormai in linea di principio ogni manufatto, dal cucchiaio alla città, potrebbe assumere la stessa e unica forma (grosso modo il parallelepipedo nero di Odissea nello spazio), si comprendono gli esercizi più spericolatamente deliranti del postmoderno, intesi a differenziare la pelle di queste macchine universali mediante una intercambiabilità ludica. L'automobile si è arrotondata per sembrare una radio giapponese, la quale si era a sua volta arrotondata per assomigliare a un Pokemon, la facciata del grattacielo diventa cartellone pubblicitario, lo spot pubblicitario imita l'arte un tempo d'avanguardia e l'arte oggi d'avanguardia imita lo spot pubblicitario di un tempo.

Le forme postmoderne sono possibili non perché si oppongono al design moderno né perché si sono assoggettate a una idea deteriore di design, ma perché il design "buono", in cui la forma segue e comunica la funzione, è morto.
Spero di essere stato più apocalittico di Gregotti. A anche se, come ho detto, sono un apocalittico cinico, e la radio alla Mazinga, che sta suonando Beethoven mentre scrivo, mi piace moltissimo.

19 novembre 2009
Intersezioni --->SPECULAZIONE
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N.B.: L'evidenziazione in giallo sono trasposte dalla pubblicazione cartacea.

14 novembre 2009

0034 [SPECULAZIONE] L'architettura globale secondo Marc Augé

Pubblico un articolo di Marc Augé apparso il 17 ottobre 2009 su Le Monde con il titolo ‘L'architecture globale’. Tradotto in Italia dal settimanale ‘Internazionale’, n. 821, 13/19 novembre 2009, pp. 84-85.
Una riflessione sull’architettura ‘iconica’ e la sua deriva estetica/commerciale. Un articolo privo della retorica del non-luogo.



di Marc Augé

L'architettura globale

Oggi i nomi dei grandi architetti sono conosciuti quasi quanto quelli dei grandi calciatori. L'architettura ha raggiunto uno status molto particolare. C'è il rischio che la torre progettata da Jean Nouvel a Manhattan sia ridotta di qualche metro? La stampa insorge.
Un'azienda vinicola vuole aumentare il prestigio dei suoi bordeaux? Chiede all'architetto della cattedrale di Evry di progettare la sua nuova cantina. S'inaugura un museo a Bilbao o a Chicago? Folle di persone accorrono, attirate più dall'edificio che dal suo contenuto.


Gli architetti più noti sono celebrati nel mondo intero: molte città di media importanza cercano di convincerne almeno uno a costruire qualcosa dalle loro parti, perché così conquisterebbero una dignità turistica internazionale. Quali sono le cause e le conseguenze di questo entusiasmo?

Bisogna innanzitutto sottolineare che le opere dei grandi architetti hanno sempre espresso e rafforzato i rapporti di potere nella società. Oggi l'architettura spettacolare dei quartieri finanziari statunitensi e dei loro equivalenti europei - torri che svettano nel cielo diurno avvolte nel bagliore delle loro facciate, o che rischiarano il cielo notturno con le lucenti trasparenze dei loro uffici perennemente illuminati - rappresenta nel modo più esplicito il potere delle aziende.

Le grandi imprese che aprono una sede in una di queste torri lo fanno prima di tutto per una questione d'immagine, parola magica e affascinante che per molti riassume tutto quel che siamo in grado di conoscere del mondo in cui viviamo. Certo, lo fanno anche per offrire buone condizioni di lavoro ai loro impiegati. Ma anche queste sono una questione d'immagine. Gli open space non sono luoghi di libertà dove lo sguardo può spingersi fino all'orizzonte attraverso vetrate immense: sono luoghi dove ognuno è prigioniero dello sguardo degli altri, in un ambiente rigorosamente gerarchizzato come quello aziendale. Non a caso gli alti dirigenti hanno uffici separati.

I musei, invece, concepiti come opere d'arte, tendono a mettere in secondo piano gli oggetti, le collezioni e le mostre che ospitano. I turisti sono davvero interessati a quello che vedranno al Guggenheim di Bilbao? Oggi un museo nuovo non è solo la struttura creata per esibire degli oggetti artistici o storici, è il piatto forte della mostra.

Dietro la polemica tra etnologi e amanti dell'arte scatenata dal musée du quai Branly di Parigi, inaugurato nel 2006, c'era un altro dibattito, implicito, sul ruolo dell'architettura. Il modo in cui un architetto museale decide come esporre gli oggetti rischia di essere soprattutto un modo di interpretarli. Immergere dei manufatti africani nella penombra, per esempio, vuol dire suggerire qualcosa di vago e ineffabile più che esaltarne il valore estetico.

C'è chi parla di "cultura del progetto" per descrivere gli architetti che si contendono i progetti finanziati dallo stato, dagli enti locali o dai privati. Esaminando le proposte dei diversi partecipanti ci si accorge subito che, oltre a fornire i dati tecnici dell'appalto, tendono a enfatizzare il significato dell'edificio progettato.

È inevitabile. Immaginate cosa succederebbe se si chiedesse ai romanzieri o ai saggisti di commentare i loro libri per ottenere il permesso di scriverli: sarebbe il trionfo dell'eloquenza! È proprio questa la condizione degli architetti. Inutile stupirsi, quindi, se nei loro progetti s'insidia pericolosamente la metafora. Le polemiche sull'importanza di adattarsi al contesto non hanno senso in un'epoca in cui ogni contesto locale vuole anche essere globale e in cui la firma dell'architetto diventa il simbolo di questo cambiamento di scala. Che sia locale o globale, il contesto è solo il pretesto per creare metafore che hanno come unico referente l'architettura stessa. Per dirla con Rem Koolhaas: "Fuck the context!".

Il mondo sta diventando un'immensa città e il potere demiurgico dell'architetto è un segno dei tempi. Esegue un appalto, certo, ma questa è al tempo stesso la sua forza e la sua debolezza. La retorica dei suoi discorsi serve a conquistare mercati: per questo, spesso imita l'ideologia degli imprenditori. Per lo stesso motivo incarna il cammino della storia, forse ne è addirittura l'espressione più spettacolare e, a volte, sfarzosa.

Capire dove ci sta portando il cammino della storia, naturalmente, è un'altra faccenda. La questione degli alloggi offre un esempio di questa incertezza. In Europa, in particolare in Francia, è apparsa la categoria dei "senza fissa dimora", più numerosa di quella dei disoccupati. Tra i senzatetto ci sono infatti persone che lavorano ma non guadagnano abbastanza per pagarsi un tetto. Chi invece ha un alloggio e un lavoro deve adattarsi a una forma di crescita urbana che spesso lo condanna a ore di spostamenti quotidiani, in una città ormai priva di senso urbanistico.

A confronto con il nostro tempo.
Quando un luogo è colpito da una catastrofe, le unità anticrisi entrano in azione per fornire alle vittime un alloggio provvisorio. In Europa la maggior parte degli immigrati irregolari, e molti di quelli in regola, vive in condizioni abitative terribili. In Francia ci sono stati molti tragici incidenti in edifici residenziali che non rispondevano alle norme minime di sicurezza.
Appena scoppia un conflitto nel mondo, la televisione ci sbatte sotto gli occhi case in rovina, esodi di massa, campi di rifugiati. Ed è evidente che in tutte le grandi città del pianeta la frattura tra i più ricchi e i più poveri si esprime in termini geografici e architettonici. Le baraccopoli che credevamo di aver eliminato negli anni sessanta hanno ricominciato a svilupparsi. La metafora della giungla fa ormai parte dell'attualità, ma la cosa sembra non colpire nessuno.

Al tempo stesso la smania di costruire si manifesta un po' ovunque, in particolare nei paesi emergenti: in Cina spuntano senza sosta edifici giganteschi, ma l'architettura fatica a seguire il ritmo sfrenato dell'urbanizzazione e della demografia. Mi tornano in mente le magnifiche e spaventose immagini del bel film di Gianni Amelio La stella che non c'è.


Un altro problema è come conciliare gli eccessi dell'architettura e il risparmio energetico, che è diventato una priorità ufficiale anche nei progetti edilizi. I cosiddetti edifici "intelligenti" divorano enormi quantità di energia.

È strano: l'architettura è il mestiere che più di tutti deve fare i conti con i problemi del mondo, ma al tempo stesso ne è sopraffatta. Li insegue senza mai riuscire a controllarli. I "grandi architetti" sono più affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi più importanti del pianeta (e chi potrebbe rimproverargli quest'ambizione?) che dall'idea di affrontare i problemi tecnici e sociali causati dall'urbanizzazione mondiale.

L'esempio di Le Corbusier dovrebbe spingere alla prudenza: il maestro, con il suo ideale dell'alloggio autosufficiente, il suo rifiuto della città storica e la passione per la tabula rasa, ha fatto molti danni. Oggi i suoi testi, insieme ad altri sogni, sono diventati quei "grandi racconti" utopici di cui Jean-Francois Lyotard celebrava la scomparsa. Ma è forse un motivo per ascoltare solo le sirene del liberismo, il cui "grande racconto" sembra altrettanto malmesso?

Sarebbe bello se gli architetti rifiutassero di presentare progetti che, in fondo, sono di seconda mano. Se avessero le loro opinioni e le esprimessero. Se si decidessero a prendere la parola. Se i più famosi non si limitassero a fare l'esegesi delle loro opere e a esprimersi con grande retorica, ma formulassero delle proposte sugli alloggi in città, su come affrontare l'emergenza pensando anche sul lungo periodo. In altre parole, se fossero loquaci quanto gli intellettuali che su questi argomenti hanno accumulato più chiacchiere che esperienza. Più ammiriamo gli architetti e più speriamo che riescano a liberarsi dalla cultura del progetto, da una forma di pensiero "a breve termine" imposta dal consumismo. E che tornino a essere dei visionari del mondo.


14 novembre 2009
Intersezioni --->SPECULAZIONE

8 novembre 2009

0004 [SQUOLA] La testa mi fa dire

Una riflessione sulla storia e sullo stato attuale dell’università di architettura italiana ma anche un ricordo di un allievo verso il suo maestro scomparso esattamente un anno fa: Antonio Quistelli

di Isidoro Pennisi
Ricercatore presso la facoltà di architettura di Reggio Calabria

La testa mi fa dire [1]

I contenuti di queste note si presterebbero a raccontare una lunga storia che non è compatibile, però, con gli spazi agili di una riflessione da offrire online. Una storia composta da vicende, esistenze, azioni, individuali e collettive. Da persone, soprattutto, che lungo un periodo di vent'anni, in varia maniera e secondo diverse specificità, hanno contribuito a trasformare i luoghi dove si tramanda la disciplina architettonica: le scuole d’architettura. Una brutta storia, purtroppo, anche se tipicamente umana. Vera come lo possono essere le storie in cui gli uomini e le donne, per porre in essere un avanzamento, possono anche fallire e determinare un arretramento. Una storia che è brutta, allora, solo perché il risultato finale della trasformazione cui si è mirato corrisponde, esattamente, al livello più basso mai raggiunto da queste scuole. Un livello nemmeno paragonabile a quello delle scuole che, fuoriuscendo da uno dei periodi più bui della nostra storia moderna, né ereditavano l’autoritarismo e le forme accademiche di trasmissione del pensiero. E’ però una storia istruttiva. Racconta di come non sia conseguente, automaticamente, ottenere dei risultati di valore dopo aver contestato e criticato una realtà previgente. Come non sia facile trasformare la realtà, aumentandone la qualità relativa, anche avendo la capacità e la fortuna di avere il tempo e le opportunità per farlo. Un’avvertenza di metodo. Organizzare dei discorsi d’ordine generazionale – che sono leciti ogni qual volta si analizzano fatti sociali anziché individuali - non vuole dire descrivere o analizzare tutte le singole parti di un insieme generazionale. Un profilo d’insieme, infatti, non è un’addizione. All’interno di una storia, allora, ognuno presta la schiena o il petto agli eventi, e non v’è bisogno – o non vi sarebbe la necessità – di verificare l’analisi generale utilizzando, come misura, la propria e personale esperienza: in bene e in male. [2]

Al principio degli anni ottanta, le scuole d’architettura avevano ormai superato ed elaborato le contraddittorie vicende che avevano caratterizzato il clima culturale e politico del Paese nel ventennio precedente. Quelle scuole e i suoi protagonisti, a quel punto, vivevano all’interno di una condizione ideale e aperta verso il futuro. Una condizione predisposta, soprattutto, a cogliere, didatticamente e culturalmente, le nuove dimensioni che nel reale davano forma effettiva al mestiere dell’architetto.

Nelle Facoltà di Architettura, chi le animava culturalmente percepiva, infatti, che la professione dell’architetto si era modificata e si stava modificando. Modificazioni di fatto, che erano intervenute in funzione dei mutamenti dei ruoli per i quali vi era – vi è, in misura diversa, ancora oggi - la possibilità di essere chiamati a operare all’interno di una precisa domanda sociale ed economica. Queste modificazioni di fatto e queste novità – anche tecnologiche – evidentemente richiedevano una eccezionale risposta che, in qualche maniera, avesse una sostanza di una vera e propria nuova fondazione.
La scuola di architettura italiana, però, non aveva mai, sino a quel momento, conosciuto fenomeni riformativi di tipo programmatico come quello della Bauhaus, ad esempio, in cui vengono dichiarati anticipatamente le tesi e gli strumenti di formazione e conoscenza. I nostri fenomeni di trasformazione della scuola, storicamente, sono sempre stati, soprattutto, una costruzione che muta, si adatta e si organizza, attraverso dei meccanismi impliciti e lineari. I processi critici di trasformazione dei contenuti che la caratterizzano in un dato momento, al fine di pervenire alla realizzazione di nuovi assetti, non si sono quasi mai manifestati attraverso una esplicita riformulazione di un progetto, o mediante un’espressa ricerca di nuove vie. Anche negli eventi del 1968, se vogliamo, non è presente alcun fatto dichiarato e organico di radicale rifondazione, se si esclude una certa retorica di principio. Una retorica che avrebbe avuto un senso, se fosse stata seguita da una razionale formalizzazione di un progetto che, al contrario, non ci fu, anche per l’incapacità, forse, dei suoi protagonisti. Più che gli ordinamenti, nel nostro caso, ciò che ha sempre contato è soprattutto il fisiologico ricambio generazionale, che trasforma non solo il profilo anagrafico dei protagonisti ma anche il punto di vista sulle questioni della scuola e dell’architettura italiana. Se dovessimo guardare, ad esempio, ai protagonisti delle generazioni che hanno preceduto quelli che hanno animato il periodo di cui stiamo parlando, dobbiamo dire che il cambiamento da loro prodotto, si è verificato proprio quando nel Secondo Dopo Guerra questi sostituirono coloro che avevano, in qualche maniera, collaborato a fornire le immagini desiderate dall’Italia nazionalista e imperialista degli anni trenta. Fu proprio la natura stessa e anagrafica dell’avvicendamento ad introdurre delle importanti novità sia nella scuola come nel mestiere. Un avvicendamento che avvenne senza processi o punti di rottura evidenti, se così si può dire. La continuità, in sostanza, in quel caso fu concepita come un valore. I protagonisti di queste nuove generazioni riconoscevano come maestri molti di quelli che andavano a sostituire, pur preparandosi a non reiterarne le scelte.

La scuola, al contrario, iniziò a cambiare seguendo le strade della discontinuità, solo negli anni sessanta e per via di ciò che avveniva all’esterno. Il cambiamento si accese nel momento in cui i problemi della città e delle procedure di trasformazione dell’ambiente urbano, cessarono di trovare un posto estemporaneo nei bagagli disciplinari individuali, diventando l’oggetto di sperimentazioni didattiche diffuse. Questo avvenne quando il problema della storia, ad esempio, diventò quello della conoscenza delle culture materiali e non solo delle emergenze più evidenti e, spesso, non rappresentative. Questo cambiamento iniziò verso la meta degli anni sessanta, ma non si era ancora concluso all’inizio degli anni ottanta. Dopo molti anni, quindi, per vari motivi che andrebbero prima o poi approfonditi, il reale portato storico di questa pretesa di cambiamento era ancora del tutto in gioco. Era in gioco, soprattutto, la possibilità di rinnovare il profilo didattico e conoscitivo delle strutture universitarie dove si apprendeva e insegnava l’Architettura. Un cambiamento che investiva la stessa definizione di manufatto architettonico e delle sue leggi costituenti. Questo processo, però, conteneva dei rischi. Tra questi, il più rilevante era quello di arrestare l’opera di riesame profondo, sia epistemologico che professionale, fermandosi in superficie; appena al di sotto di un livello d’astrazione ideale. Il rischio, se non ci si andava a confrontare e misurare con il sistema reale di cui l’oggetto architettonico è parte, era quello di approdare sulle spiagge suadenti dell’esercizio puramente verbale o estetico. Quello che era in gioco, in sostanza, era il mandato sociale del nostro mestiere, da ridefinire ed inserire nelle strutture didattiche. Senza la chiarezza di questo mandato, infatti, ogni espressione materiale diventa occasionale, ininfluente, inadeguata ad una realtà che, in questo senso, non sa come collocare un mestiere che influisce, al massimo, sulle proprie questioni interne. Senza un mandato sociale chiaro, non esiste evento o funzione che non si riduca, nel tempo, allo stato d’entità protetta, alla stessa maniera con cui alcune culture, una volta importanti, diventando marginali e residuali, vivono, da un certo punto in poi, in una riserva a esse destinate.

All’inizio degli anni ottanta, quindi, quando si trattava di portare a compimento l’opera di trasformazione delle scuole d’architettura, succede che all’interno di queste convivevano due ambiti generazionali diversi e distinti, anche se legati tra loro dal vincolo che unisce un maestro e un allievo. Uno andava esaurendo il proprio compito, mentre l’altro si preparava a sostituirlo pienamente. Il primo ambito generazionale si riconosceva ancora, pur vivendo e consumando la fase di esaurimento di un compito, nel tentativo di trasformazione che abbiamo prima tracciato. Un tentativo che intravedeva un fine in cui la definizione che avrebbe assunto l’architetto era quello dell’intellettuale organico - nel senso che Gramsci assegna a questo termine -. Una definizione che conteneva al suo interno la necessità, per l’architetto, di tracciare dei segni che fossero la conseguenza, in termini organici, delle dimensioni della realtà morfologica, sociale ed economica reale. Il fine delle trasformazioni della scuola che essi avevano provato a realizzare, in quel momento, era quindi quello di costruire un nuovo progetto didattico che avesse lo stesso spessore di questa realtà. [3] Il merito di quella generazione che andava ad esaurire fisiologicamente il proprio compito, quindi, era quello di aver dato carne e anima a questo processo di trasformazione, che in quel momento, però, non era assolutamente compiuto. Al momento della consegna del testimone, quando un secondo e più giovane ambito generazionale andava sostituendo quello precedente, avveniva, però, che all’esterno della scuola, i principali architetti di questa nuova generazione discutevano e nutrivano il dibattito, come si diceva, proprio sul rifiuto, più o meno esplicito, di questa concezione organica lasciata in eredità dai loro maestri. Un rifiuto che questa generazione, che si apprestava a guidare i processi formativi e di trasmissione del sapere architettonico, si proponeva d’introdurre, in modo programmatico, proprio nella scuola.

La struttura didattica che questi ultimi ereditavano, quindi, era stata costruita per formare uno sperimentatore abituato ad affermare il proprio ruolo di fronte all’intero processo edilizio, in cui la città, l’edificio, gli oggetti, assumevano una consistenza di forma che necessitava di una medesima coscienza metodologica, in cui la volontà creativa fosse organica al materiale da trasformare. Questa nuova generazione che prendeva le redini delle Facoltà d’Architettura, al contrario, si apprestava a modificare questo approccio. Non è un caso, allora, che verso la metà degli anni ottanta, quando oramai l’avvicendamento generazionale era stato completato, il dibattito architettonico, soprattutto italiano, trovava alcuni minimi comuni denominatori evidenti: il recupero della tradizione costruttiva, della storia, del disegno, del progetto, tutti intesi in senso volutamente tautologico. Un dibattito in cui era chiaro, che dietro il soggetto di un recupero dello specifico disciplinare - come si affermava – più che altro andava in scena proprio un senso di legittimo rifiuto di un’idea organica dell’architetto e dell’architettura.

E’ in quel momento cruciale, e nella saldatura tra idee e responsabilità di governo delle Facoltà d’Architettura, che nasce il disegno di riforma più incisivo e radicale degli ordinamenti delle scuole d’architettura del dopoguerra, che avrà il suo sfogo legislativo agli inizi degli anni novanta. Anni in cui si ritrovano, nei punti nevralgici di direzione organizzativa, politica e culturale, delle Facoltà d’Architettura, un insieme di docenti e architetti che individuarono, legittimamente, i punti salienti di una lettura critica sullo stato della disciplina e della professione. Dei punti che andavano dagli effetti negativi prodotti dall’introduzione, nello specifico tradizionale della disciplina, d’ambiti scientifici e conoscitivi diversi ed inediti, alla conseguente contaminazione del corpus storico disciplinare dell’architettura. Sotto accusa, soprattutto, furono le introduzioni legate al problema della città e dell’urbanistica, alle questioni riferibili alle dimensioni sociali ed economiche, sino a una diversa maniera d’intendere la storia. Introduzioni fallimentari: questa fu la sentenza di allora. Quelle nuove dimensioni disciplinari non solo erano inutili, ma toglievano tempo ed energie alla centralità dell’addestramento progettuale che, invece, doveva tornare ad essere nodale. Questo tipo d’analisi, elaborata dai giovani protagonisti dell’epoca, anche se legittima, tendeva però, più che altro, ad elaborare una maniera utile a chiudere definitivamente il rapporto diretto e indiretto con i loro maestri. Questa elaborazione li portò a richiamare in servizio, quindi, un bagaglio evidentemente inattuale. Oggi è del tutto evidente, infatti, che richiamarsi in maniera troppo semplicistica all’autonomia disciplinare, alla specificità dell’architettura, senza dire nulla di chiaro su che cosa siano l’una e l’altra cosa, o su quali condizioni ponevano in quel momento, e indicando, semplicemente, il sentiero di una tradizione perduta in un attimo di follia collettiva, ritrovata dopo la fine del “proibizionismo moderno” , fu un’operazione umorale più che intellettuale, anche se, ad onor del vero, del tutto onesta e disinteressata. Attraverso le lenti di questo recupero nostalgico di una realtà che non era più, fu messa però sul tappeto una questione del progetto che, posta nel modo in cui fu posta, più generica non avrebbe potuto essere. Il progetto d’architettura, infatti, nella realtà storica di sempre, è l’essenziale momento di sintesi di conoscenze specifiche e d’abilità pratiche, che hanno la necessità, però, di trovare un loro punto d’equilibrio all’interno di una planimetria precisa di conoscenze. Senza interrogarsi continuamente sulla natura di questa planimetria, e senza riconoscerne i nuovi elementi e le diverse dimensioni, evocare la centralità del progetto è solo uno dei modi più comuni per proferire una delle più semplici parole d’ordine.

La radicale riforma degli ordinamenti didattici delle Facoltà di Architettura introdotta all’inizio degli anni novanta, quindi, provava a tradurre in pratica i risultati di questo processo critico utilizzando una riscrittura di questi ordinamenti nel frattempo divenuti necessari, dal punto di vista legislativo, in funzione dell’emanazione di una Direttiva Europea, che aveva per oggetto proprio le scuole e gli studi di architettura. [4] Non è un caso, allora, che furono soprattutto tre le novità di questa riforma: l’introduzione di alcune inedite condizioni di lavoro didattico – il Laboratorio di Progettazione e i Corsi Integrati – ed un nuovo dimensionamento dei pesi e degli equilibri tra le diverse componenti disciplinari, insieme ad un netto aumento del carico didattico complessivo. Cos’è un Laboratorio? E’ una struttura didattica composita, dove far convergere diverse discipline - di cui una caratterizzante e altre di supporto - da sintetizzare nell’esercizio della progettazione. Apparentemente una conquista: un traguardo del tutto condivisibile. Quali, però, i problemi? Il primo è stato il confondere la scala e il significato del risultato che si voleva raggiungere, con la sua reale fattibilità. Una fattibilità che gravava interamente sull’adeguatezza degli interpreti di questo nuovo progetto didattico. Una cosa, infatti, è l’apprendimento del mestiere all’interno dei processi di partecipazione di un allievo con un maestro - o con una persona di maggiore esperienza – nel mentre si opera insieme sul progetto. Dei momenti in cui l’allievo ruba, assimila, apprende, gli aspetti pratici, le procedure analitiche e le risposte sintetiche di un progetto, nello stesso momento in cui, insieme, si produce uno sforzo progettuale. Altra cosa è trasferire le azioni d’apprendimento, il tempo da utilizzare per fare pratica progettuale individuale, spesso faticosa e ripetuta, da un comodo habitat privato in uno scomodo spazio di un’aula universitaria, senza modificare le relazioni e i rapporti tra allievo e docente. È chiaro che i due casi non sono la stessa cosa. Nel primo caso, infatti, siamo di fronte ad una delle più antiche e ideali forme di trasmissione del pensiero e del fare architettonico - ancora valido, io credo - mentre nel secondo caso, l’unica differenza è il luogo dove si svolge il lavoro di apprendimento, che comunque rimane identico a quello che ci si prefiggeva di modificare. O si riesce a trasferire nella scuola, quindi, non solo lo spirito che impregna questa antica modalità di trasferimento delle conoscenze dell’architettura, ma anche la situazione reale e ottimale all’interno della quale si svolge il lavoro - e questo è tutto da vedere - oppure, ciò che rimane è un puro velleitarismo. L’istituto dei Laboratori, quindi, soprattutto nella loro applicazione, ha contribuito ad una maggiore disarticolazione disciplinare, ottenuta attraverso una maggiore atomizzazione dei singoli contributi. Attraverso un utilizzo non sostanziale ma strumentale dei Laboratori, si è prodotto un processo di proliferazione di sub discipline che, lentamente, hanno costituito, anche in chiave accademica, una sorta di federalismo della didattica, se così possiamo definirlo, in cui dei successivi e ripetuti livelli di frammentazione hanno trasformato un corpus unico, ma articolato e relazionato, in tante parti senza alcun significato culturale ed epistemologico. La seconda questione, fu la scelta e il peso dei contributi disciplinari articolati all’interno di quella organizzazione didattica, e insieme la quantità di tempo da utilizzare per svolgere l’offerta didattica. La riformulazione dei pesi assegnati alle diverse parti che compongono il curriculum disciplinare, ha lasciato all’esterno, o ha reso marginali, alcune dimensioni importanti del sapere di un architetto che vive e opera in questo tempo. Questa marginalità - in alcuni casi l’espulsione - d’aspetti culturali del sapere, è stata prodotta attraverso una scrematura degli insegnamenti, ricondotti a subordinazioni rispetto a principi non verificati. La dimensione urbana, soprattutto, ma anche lo stretto legame esistente tra processi d’ideazione, la progettazione architettonica e la trama effettiva dei fenomeni complessi che ordinano il reale – le questioni legislative, economiche, sociali, storiche e culturali, dell’arte come della tecnica - non hanno più un posto chiaro e deputato nei piani di studio.

Questo tentativo, onesto e oggettivamente finalizzato a dare un assetto moderno ma radicato nella tradizione alle nostre Scuole di Architettura, si è quindi infranto, credo, proprio contro l’incapacità degli interpreti nel dargli un anima e una prassi realistica. Un tentativo, e arriviamo ad oggi, che, anche in questo caso, era ancora in piena sperimentazione quando, all’inizio del primo decennio di questo secolo, ha dovuto confrontarsi con la riforma complessiva degli ordinamenti universitari italiani. Un confronto che si poteva anche evitare, però, visto che la riforma stessa, realisticamente, permetteva ad alcune Facoltà, tra le quali quelle di Architettura, di mantenere inalterati, negli aspetti principali, gli assetti didattici previgenti, per via del fatto che questi, in alcuni casi, erano stati già riformati in funzione di Direttive Europee specifiche che non collimavano con le caratteristiche fondamentali e generali di questa riforma. [5] Ogni Facoltà diede vita, al contrario, ad uno smantellamento dell’assetto formativo unitario in essere, che fu sostituito da una miriade di Corsi di Studio, differenti tra di loro e nati in funzione delle scelte autonome delle diverse sedi universitarie. Queste differenze erano di tipo organizzativo – i Laboratori, ad esempio, vennero interpretati nuovamente secondo logiche molto diverse tra di loro – di tipo qualitativo – i piani di studio contenevano discipline molto diverse tra sede e sede – e soprattutto quantitativo – il carico didattico era diventato un fattore del tutto soggettivo e variava non solo da sede in sede ma anche da anno in anno, e il numero delle discipline inserite nei piani di studio erano completamente diverse in base alla Facoltà –.

Questo percorso ultrariformatore, condotto senza alcun coordinamento nazionale e in piena autonomia, ha portato le diverse sedi a scegliere ognuna un percorso diverso, prefigurando, così, tante vie per uno stesso obbiettivo; tante prassi per uno stesso mestiere, per un identico sapere da trasferire e per una stessa struttura di conoscenze da formare. Un processo riformatore che è avvenuto, anche in questo caso, all’interno di un nuovo avvicendamento generazionale, tutt’ora in corso, e nel pieno di una mutazione abbastanza intensa di quasi tutti i principali fattori epistemologici, imposta dal timing della così detta rivoluzione informatica e tecnologica. Nuovi strumenti di disegno e prefigurazione del progetto, nuovi sistemi costruttivi, nuovi materiali, impongono ripensamenti e soluzioni di continuità che, tutt’ora, non solo non hanno trovato un quadro strategico culturale di tipo storico, ma, in maniera determinante, hanno impattato sulle nostre Facoltà trovando al suo interno un quadro dirigente, organizzativo e culturale, probabilmente non commisurato a questo compito, che rimane tutt’ora smisurato ma non aggirabile.

Da dove aggredire, in conclusione, il quadro problematico e storico che si è provato a tracciare, per inserire dei livelli di ragionevolezza e buon senso nelle nostre strutture di trasferimento e formazione del sapere architettonico? Crediamo, ancora oggi, che la natura della metodologia che deve caratterizzare le nostre scuole non può adattarsi, soprattutto nel profilo generale dei processi di costruzione di conoscenza, alle logiche delle scienze esatte. Questo è un limite, da una parte, ma è pure il dato di fondo della nostra identità e della nostra legittimità. I nostri studi non possono partire da modelli matematici e dalla loro sostanza astratta. Per chi usa questa strada, la realtà e la sua capacità di risposte finite, si identificano all’interno della stabilità e l'ordine dei principi. Noi siamo obbligati ad evolvere e a formarci all’interno di un percorso del tutto diverso. Noi costruiamo le nostre astrazioni, ordinando la realtà in un sistema diverso di informazioni. È un cammino verso la coscienza, come ricorda Antonio Quistelli, [6] in cui non si procede da leggi date per risolversi, attraverso di esse, in un controllo del mondo fisico. Cosa possiamo ragionevolmente dire, allora, agli studenti che in questo momento e in questa situazione provano a vivere questa avventura formativa? Vorremo farlo dire ad Antonio Quistelli, che fu Preside di una Facoltà di Architettura e Rettore di un Ateneo, esattamente ad un anno dalla sua scomparsa. Una maniera per ricordarlo, in parte, ma anche per evocare delle riflessioni che riteniamo ancora oggi del tutto valide e buone per riabilitare, nel tempo, le nostre scuole di Architettura.

“A chi volesse fare l'architetto bisognerebbe chiedere e dire: ebbene, sapete disegnare? Può essere importante: il disegno sarà una lingua che dovrete conoscere. Pensate di saper attingere all'immaginario e insieme praticare la concretezza? E' importante. Siete in grado di dare a voi stessi l'autonomia della vostra soggettività e servirvene per interpretare la collettività? Le vostre mani sanno fare le cose? Riuscite a vedere gli uomini dietro i segni del mondo materiale e credere che valga la pena di porre voi stessi e le vostre capacità al loro servizio? Forse, se è così, potete pensare di avventurarvi in un mondo che potrà conquistarvi, ma non sempre compensarvi." [7]

8 novembre 2009

Intersezioni --->SQUOLA

Come usare WA ---------------------------------------------------Cos'è WA

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N.B.: SQUOLA è un errore voluto ed è semplicemente il nome della rubrica

Note:

[1] Come ricorda Marcello Sorgi in una sua intervista ad Andrea Camilleri (da l titolo “La testa ci fa dire”, Edizioni Sellerio) questa espressione è tipicamente siciliana e ha lo stesso significato di “presagire”, oppure, di “avere paura che una cosa sia un certo modo”. La cosa che colpisce, è che in Sicilia, anche quando si esprime un parere derivante più da un istinto o da un sentire che da un ragionamento, la testa e il pensare rimangono, comunque, il veicolo principale con cui questo parere lo si elabora e lo si esprime.

[2] Generalizzare è una cosa umanamente disdicevole. Chi però vuole fare una analisi che riguarda dei fenomeni sociali e del tutto generali, non ha altra scelta che quella di generalizzare. Si può pretendere, infatti, da una analisi, che si prendano in considerazioni le persone una ad una? Oppure è il fenomeno che tutte insieme producono ad essere rilevante? Le storie personali sono sempre diverse. Pur tuttavia, se analisi deve essere non può che riguardare l’intero corpo e la fisiologia completa di un organismo. Nella storia, diversamente che nel campo giuridico, dove sono state e sono una forzatura, esistono realmente le responsabilità associative. Bisogna allora imparare a prendersele tutte queste responsabilità, anche quando, in buona fede, non ci si riconosce nei risultati e nella maniera con cui è stata condotta collegialmente una vicenda.

[3] Valga per tutti, come esempio, solo per ricordare le due figure che più di tutte hanno messo al centro del loro lavoro di docenti una riflessione organica sulle scuole di Architettura, l’opera portata avanti, in questo senso, sia da Saverio Muratori che da Adalberto Libera, su cui sarebbe meglio tornare a riflettere.

[4] Su questa Direttiva si è molto speculato, dando ad essa una valenza sproporzionata rispetto ai suoi reali contenuti. A leggerla con attenzione, si nota che le questioni fondamentali si riducono a due: un elenco di dieci punti programmatici di tipo culturale e professionale sui quali basarsi nell’organizzare gli ordinamenti delle Facoltà di Architettura in Europa e un tetto minimo di anni – quattro – riguardo alla durata di un percorso di studi riconosciuto da tutti i Paesi membri dell’Unione Europea.

[5] Nonostante tutto, le Facoltà di Architettura modellarono la loro offerta didattica fondamentale – quella destinata a formare Architetti – secondo la destrutturazione in due livelli del percorso di studi, dimenticando che la Direttiva Europea in questione non ammetteva titoli di architetto conseguiti attraverso un percorso di studi composto da almeno quattro anni. Questa operazione, svolta secondo logiche del tutto arbitrarie e con profonde differenze tra le diverse sedi universitarie, ha portato in poco tempo a disegnare un quadro didattico del tutto difforme rispetto ad altre realtà europee, da una parte, e a rendere assolutamente non credibile l’idea che ci fosse una idea di formazione dell’architetto in qualche maniera comune e condivisa all’interno della cultura accademica e professionale italiana.

[6] “A ragione siamo posti al limite di quell'ambito che viene ancora detto umanistico, se con questo si intende qualcosa che pone la sua centralità nella coscienza; che pone la sua centralità nella costruzione di una responsabilità morale una volta che si è preteso il privilegio di assumere la propria soggettività (la propria coscienza collettivo-soggettiva) come riferimento, come "metro”, come giudice della qualità delle relazioni che impariamo a riconoscere, dalle interazioni che osserviamo.”

[7] Il brano è tratto da un intervento svolto da Antonio Quistelli nel 1989, durante le attività di orientamento organizzate dall’Università degli Studi di Lecce.