29 settembre 2011

0020 [CITTA'] Cosa voglia dire «fare città oggi»?

di Salvatore D'Agostino
«oggi, è cruciale individuare le forme dell’Anticittà; riconoscerle con precisione, per evitare di considerarle estranee alla nostra vita. E capire dove e come operano, quali regole seguono, chi le promuove.
Perché l’Anticittà, ci piaccia o no, siamo noi».1
L'anticittà, titolo dell'ultimo libro di Stefano Boeri, rischia di diventare una delle tante frasi contenitore dell'architettura, ideale per i titoli dei giornali dall’effetto notizia, per i convegni sui massimi sistemi dell’urbanistica e gli speaker’s corner blogger. Dalla confezione del libro in stile da scaffale al titolo da copyright ©, ammiccante, svelto e semplice è studiato per vendere un prodotto ma non per approfondire i suoi concetti.

L’anticittà, per Boeri, è la pratica urbana individuale e indifferenziata che ha ridefinito e abitato il territorio italiano negli ultimi decenni, usando pochi elementi 'edilizi' come campioni, tipo: le villette isolate e recintate, i capannoni da lavoro sul bordo delle strade, la palazzina fitta di appartamenti senza spazi sociali, la casa a schiera che simula la villetta isolata e i centri commerciali a ridosso degli snodi di comunicazione. 

19 settembre 2011

0051 [MONDOBLOG] Il futuro | Geoff Manaugh

di Salvatore D'Agostino

Leggi le altre puntate del Corso di blog: La storia, L'attrezzatura, I contenuti e Per chi si scrive?

Prima dell’intervista a Joseph Grima,* una parentesi: pubblico l’ultima puntata del ciclo Blogging 101 di Geoff Manaugh sui blog e l’architettura, ospitato in questi ultimi mesi sulla rivista Abitare.


Rivista che ha recentemente cambiato direttore: a Stefano Boeri infatti è subentrato Mario Piazza, con un primo e curioso ‘non editoriale’1 mi ricorda questa frase di Walter Benjamin:
«Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare. Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ricca di spirito. Stracci e rifiuti, invece, ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli.»2
di Geoff Manaugh*

Questa serie in cinque parti sul mondo dei blog d’architettura e design oggi si conclude qui con uno sguardo d’anticipo al futuro del blogging: questa volta vedremo in che direzione andranno i blog e quali sono i rischi di divisione interna da evitare; cercheremo perfino di capire se il blogging abbia o meno un futuro. In un certo senso, è un momento anomalo per fare previsioni; dopo tutto, parlare del futuro del blogging sottintende che ci sia un futuro per i blog. Eppure in realtà il blog tradizionale sembra essere sul punto di scomparire. La mia definizione di blog tradizionale è la seguente: un sito i cui contenuti sono pubblicati in ordine cronologico inverso, organizzati secondo una griglia tematica più o meno coerente e scritti da un numero limitato di autori, spesso solo uno.

Oggi si può arrivare ad affermare che i blog siano una forma in via di estinzione. Tuttavia, come vedremo più avanti, non è detto che questa profezia così apertamente pessimistica debba avverarsi. Prima di tutto, bisogna prendere in considerazione due tendenze in apparenza inarrestabili che negli ultimi anni hanno trasformato radicalmente diversi aspetti dei blog, come la maniera in cui vengono scritti, gli autori che li scrivono, le aspettative del pubblico dei lettori e il ruolo che i blog ricoprono nel panorama globale dei mezzi di comunicazione.

Una di queste nuove tendenze è la proliferazione di servizi di micro-blogging e applicazioni simili, come Twitter, Tumblr, Posterous, e perfino Instagram. Ironicamente, tutti questi servizi incoraggiano – in realtà praticamente incentivano – la composizione di contenuti in forma ridotta. Per esempio, il limite di 140 caratteri imposto da Twitter consente a chi scrive giusto lo spazio minimo per descrivere un link che sta per essere condiviso con il lettore. Difficile immaginare di riuscire a trovare lo spazio sufficiente per offrire analisi e interpretazioni originali. E se non c’è niente di fondamentalmente sbagliato – io stesso uso Twitter con grande entusiasmo – non si può negare che vi sia anche un aspetto potenzialmente negativo in questa tendenza. Twitter ha reso la condivisione di link talmente semplice, senza alcun bisogno di sviluppare commenti critici, che tanti scrittori in un certo senso si sono da soli privati di possibili post da pubblicare sui loro blog. Piuttosto, numerosi scrittori adesso si accontentano dell’istantanea gratificazione di un’immediata condivisione in Twitter. Sul sito di micro-blogging, infatti, si possono condividere contenuti e link senza bisogno di mantenere un sito personale.

In altre parole, il canale di Twitter di un autore si trova spesso a essere in competizione con il suo stesso blog. La stessa cosa, anche se l’effetto è meno radicale, si può dire di nuovi servizi di condivisione di immagini, come Twitpic o Instagram. Dopo tutto, perché scrivere un intero post sul blog per spiegare dove ci troviamo, come ci siamo arrivati, perché il soggetto che stiamo fotografando è interessante, o addirittura il motivo stesso dell’atto di andare e fotografare, quando basta caricare una foto, metterci una didascalia spiritosa e aspettare che gli amici clicchino “mi piace”?

Ma allora, vale davvero la pena di mettersi a lavorare?
Com'è ovvio, perseverando in questa attitudine aggressivamente negativa verso i nuovi servizi di micro-blogging, se ne perderebbero di vista l’utilità sociale e il valore intellettuale; il punto principale del discorso, tuttavia, resta valido. Adesso è così facile non bloggare che molti autori, che anche solo due anni fa avrebbero iniziato un loro blog personale con cui costruirsi un pubblico, semplicemente mettono in circolazione cose attraverso Twitter, un servizio che è notoriamente difficilissimo da archiviare. Questa è una decisione che a lungo termine potrebbe impedire allo scrittore di raggiungere il riconoscimento o il successo che pensava di star coltivando. In tutti questi casi la strategia vincente sembra essere quella della minore resistenza.

Un altro evento che ha cambiato ancor più radicalmente la natura dei blog oggi è che essi come forma sono stati assorbiti da quelli che io genericamente chiamo “media commerciali”. Anche se varrebbe la pena di ripetere che i blog gestiti da riviste, quotidiani, istituzioni accademiche e aziende private in realtà non sono blog nel vero senso della parola, questa è forse alla fine solo una questione di lana caprina. Oggi sembra che proprio qualsiasi cosa scritta in Internet debba essere considerata un blog; la differenza fra blog, siti e altre forme di pubblicazione in rete è stata purtroppo completamente erosa. I blog ora vengono scritti sempre meno da singoli critici o appassionati e sempre più da gruppi di semi-professionisti che vengono pagati per questo loro lavoro svolto per grandi compagnie o pubblicazioni – The New York Times, The Guardian, The Wall Street Journal, USA Network, The Atlantic, Forbes. I blog vengono trattati nel contesto delle grandi holding di comunicazione come strumento di promozione e relazioni pubbliche. Nel corso del tempo, questo indebolirà il ruolo culturale dei blog, neutralizzandone il vero potere critico e rendendo risibile la loro pretesa di dare voce a chi altrimenti è condannato al silenzio.

Bisognerebbe invece apprezzare con convinzione e senza ironia la capacità del blog di non avere legami con le istituzioni dominanti; in un certo senso, è proprio questo il loro vero valore e il loro scopo. Il blogging – ovvero il rendere pubbliche annotazioni su argomenti che per noi e i nostri lettori hanno un certo interesse – sarà sempre utile fin quando esisterà Internet. Inoltre, i blog devono necessariamente fondarsi su quei contenuti prodotti d’impulso ed essere organizzati in maniera casuale e affascinante per cui a ragione sono divenuti famosi (e per cui in molti circoli sono stati ridicolizzati e presi in poca considerazione). I blog non hanno bisogno di grandi budget e connessioni ufficiali con i grandi media; hanno solo bisogno di persone che vogliono condividere con il mondo l’entusiasmo delle cose di cui sono appassionate.

Inoltre, bisogna anche tener presente che i blog hanno una utilità tattica che non verrà mai meno, un futuro molto più diretto. In una recente intervista con gli architetti Mason White e Lola Sheppard di Lateral Office, con sede a Toronto, i due mi hanno parlato del loro blog InfraNet Lab, scritto in collaborazione con Neeraj Bhatia e Maya Przybylski. InfraNet Lab funziona come un catalogo aperto di progetti futuri: luoghi possibili, problemi, materiali e perfino clienti con i quali non c’è ancora un’intesa su come procedere. Il blog serve, in modo essenziale, a organizzare in maniera silenziosa i pensieri degli architetti, aiutandoli a prendere decisioni verso una certa interpretazione o una determinata soluzione, per quanto aleatorio questo processo possa essere. Il blog va formandosi per accrescimento ed è strategicamente incompleto.

Il blog da un lato e la pratica dell’architettura dall'altro possono così essere usati in sinergia facendo uso delle loro particolari competenze; ognuna delle due forme può essere utilizzata per raggiungere i propri specifici obiettivi. Non dovrebbe sorprendere che i blog possano essere utilizzati in questo modo. In realtà, si può dire che il futuro del blogging risiede in quello che è sempre stato il suo passato, ma senza glamour o eccessive aspettative, senza l’esuberanza irrazionale che una volta arrivava a far dire che i blog avrebbero reso obsolete le università, rimpiazzato intere reti di redattori con i loro campi di specializzazione ed eliminato intere industrie culturali. Queste affermazioni gonfiate e deliranti sul potere del blogging hanno reso un torto alla genuina utilità dei blog, e hanno contribuito a quella commercializzazione del blogging che ho prima descritto.

Quello che i blog oggi devono evitare, se si vuole che abbiano un ruolo davvero interessante nel panorama dei media, è di diventare una semplice ed equivoca estensione dei servizi di pubbliche relazioni aziendali. Allo stesso tempo, il blogging non deve mai perdere il suo taglio impulsivo, di ricerca, eternamente incompleto, che vede l’autore del blog impegnato in un processo di assoluta scoperta insieme al lettore. Un’altra cosa di cui il blogging non ha bisogno, se vuole sopravvivere in una forma utile, sono le superficiali e maliziose esortazioni a essere “più cattivi”, come ha scritto almeno un critico – in pratica guardandosi a vicenda in cagnesco sempre e in ogni contesto – come se l’aggressione e l’offensiva retorica fossero le sole a rendere il dialogo in rete interessante. Non la poesia, non le nuove idee e le prospettive innovative sulla spazialità umana, e nemmeno la meravigliosa ingegnosità del pensiero architettonico. Il blogging dovrebbe invece ergersi al di sopra di questa litigiosità infantile e concentrarsi su obiettivi più ambiziosi.

In fin dei conti, comunque la si voglia vedere, la sopravvivenza del blogging non è assolutamente garantita. Molti preferirebbero vedere i blog addomesticati, trasformati in un sistema pubblicitario camuffato. Altri vorrebbero vedere i blog sostituiti dallo stesso genere di discorso specialistico che si trova nelle pubblicazioni accademiche (proprio quelle da cui i blogger e i loro lettori cercavano da scappare in origine). Il futuro del blogging d’architettura e design dovrebbe:

1) rendere la cultura popolare più interessante introducendo idee di confine a nuove, più ampie platee, facendo così da ponte fra il centro e la periferia; 
2) sintetizzare idee da campi in apparenza lontani fra loro e così facendo; 
3) unire scrittori, designer, clienti, pubblico dei lettori e altri professionisti di diversa formazione e provenienza geografica intorno a comuni temi di discussione e interesse.
Nel contempo, il blogging dovrebbe riuscire a perseguire nel suo futuro l’obiettivo politico di cambiare il tipo di conversazioni che hanno luogo nell'ambito dell’architettura e del design, aprire queste discussioni a nuovi partecipanti e, infine, ampliare le modalità di divulgazione dei risultati di questi scambi. Questi sono obiettivi ambiziosi, forse perfino utopistici, ma sono necessari per far sì che il blogging abbia davvero un futuro.

19 settembre 2011
Intersezioni ---> MONDOBLOG

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Note:
1 Editoriale di Mario Piazza, Tentativo per non scrivere il mio primo editoriale, Abitare n. 515, settembre 2011* 
2 Walter Benjamin, Giorgio Agamben (a cura di), Parigi, capitale del XIX secolo. Progetti appunti e materiali 1927-1940, Giulio Einaudi Editore, 1986, p. 595

* Pubblicazione autorizzata da Abitare
Geoff Manaugh, Blogging 101 - La storia Abitare n. 510, marzo 2011, pp. 150-153

The future | Blogging 101 | Geoff Manaugh

by Geoff Manaugh*


This five-part series about our contemporary era of architecture and design blogging concludes here with a look forward at blogging’s future: where blogging might go next, what divisive fates it should attempt to avoid, and even whether or not blogging has a future at all. It is, in some ways, an odd time to be looking ahead; after all, to discuss the future of blogging implies that there is a future for blogging. But the traditional blog – which I’ll define as a regularly updated website whose content is posted in reverse chronological order, organized around a more or less thematically consistent cluster of topics, and written by a limited number of authors, often just one – seems to be on the verge of disappearing. Blogging, we might say, is in the process of going extinct. This overtly pessimistic prediction, however, need not come to pass, as we’ll see below.

11 settembre 2011

0002 [APPUNTI DI VISTA] Io ero lì

foto e testo di Salvatore D'Agostino

Io ero lì davanti la TV, dietro i retroscena del mondo, respirando l'aria che abito illudendomi di non indossare la sua implosione.

5 settembre 2011

0020 [A-B USO] Lebbeus Woods | San Sperato

di Lebbeus Woods 
WILD BUILDINGS | EDIFICI ABUSIVI*


(Foto sopra) Una veduta degli 'edifici abusivi', sulle colline che sovrastano la città meridionale di Reggio Calabria, Italia, nel 1999. Questa frazione illegale è stata battezzata San Sperato dai suoi nuovi coloni, ricordando così il nome del santo patrono del desiderio e della speranza. 

Lungo le coste che sovrastano il Mediterraneo, un tipo di costruzione ha proliferato negli ultimi trent'anni: vengono di solito definiti come "edifici abusivi". Che cosa ci sia di abusivo a proposito di questi edifici non è il progetto architettonico, assolutamente convenzionale, quanto piuttosto la mancanza di qualsiasi status giuridico e legale nei confronti dei comuni in cui sono abusivamente costruiti.

Edificati di solito in quartieri non pianificati, amorfi, essi sono come 'squatter', abusivi, al pari delle baraccopoli del resto del mondo, con alcune evidenti eccezioni che li rendono del tutto atipici.
La prima e più evidente differenza con le favelas è la tecnica di costruzione: nel nostro caso, il materiale è prevalentemente il cemento armato tamponato con murature in mattoni, una tipologia molto solida e duratura. La seconda differenza è che i proprietari di questi edifici non sono poveri, ma abbastanza ricchi da potersi permettere di commissionare tale tipologia. La maggioranza di questi committenti è formata da contadini o ex contadini, o comunque gente di campagna, relativamente arricchiti dall'alta redditività dei loro prodotti e raccolti, spesso irrobustita da generosi contributi pubblici. 

Le analogie con le baraccopoli, però, ci sono e sono ascrivibili ai motivi di fondo dell'inurbazione: quando nuove famiglie migrano verso la città, lo fanno per gli stessi esatti motivi degli abitanti delle baraccopoli di tutto il resto del mondo, cioè essenzialmente per migliorare le loro prospettive economiche. In questo caso, però, i nuovi cittadini non sono alla ricerca di una fabbrica, di una paga bassa o di lavori di servizio, poiché hanno nelle loro tasche abbastanza soldi per aprire imprese artigiane veramente redditizie, tramandabili ai familiari anche per svariate generazioni. 

Un altro punto di confronto è che si costruiscono abusivamente edifici civili, piccoli quartieri satellite, su terreni con destinazione teoricamente agricola. Una volta iniziati i lavori, gli ispettori urbanistici e i funzionari comunali o di altri enti li fanno interrompere, infliggendo loro sanzioni pecuniarie. Una volta pagate queste ammende, il cantiere riparte. 

Altra somiglianza con le baraccopoli è il fatto che queste comunità abusive non possiedono i servizi essenziali e le forniture dalla città, quali l'elettricità, l'acqua e i servizi igienico-sanitari. Per ottenerli, i proprietari-residenti devono trovare sistemi fai da te per produrli o, più comunemente, prelevarli in modo illegale dalle reti in transito nelle vicinanze. Seguono ancora una volta multe e sanzioni che sono pagate, ma il prelievo abusivo poi ricomincia. 

La famiglia è la parola chiave di queste comunità 'abusive'. Gli edifici sono costruiti un piano alla volta. Il capostipite della famiglia costruisce il primo piano della casa, soprelevando i pilastri di cemento, gettati fin dall'inizio con tondini maggiorati, tutto pronto insomma per edificare il solaio successivo. Questo sarà aggiunto dal figlio o figlia della famiglia, al momento in cui lui-lei si sposa e fonda la prossima generazione. La struttura della casa è quindi progettata e realizzata (nella maggior parte dei casi con metodi ad hoc) per essere sopraelevata ad uso delle generazioni future. 

Questo è il tipo caratteristico di città, o almeno d’insediamento, che cresce dall'interno, secondo regole informali e spontanee, ma con una buona e durevole tecnica. Per concludere, potremmo dire che questo tipo di architettura e urbanistica sono un esempio di crescita adattata ad uno stile di vita programmata per essere governata dall'incertezza.

(Foto sopra) Una casa famiglia unifamiliare in San Sperato, ospitante tre generazioni di una stessa famiglia. È interessante notare le lievi differenze stilistiche dell'espressione architettonica che ogni generazione ha apportato durante le varie sopraelevazioni.

5 settembre 2011 
Intersezioni --->A-B USO
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Note:
* Ringrazio Lebbeus Woods per la pubblicazione in italiano del suo post WILD BUILDINGS* e Davide Dal Muto per la traduzione.